Il maggiore Erika Monticone ci racconta la sua esperienza

“Di fronte a certi racconti ci si sente veramente impotenti, eppure sapevo di voler provare a fare di più, cercando di dare una possibilità a chi non ne aveva mai avute.” Con queste parole il maggiore Erika Monticone inizia a raccontarci la sua esperienza come Gender Advisor della Brigata Alpina Julia nel 2015 nell’ambito della missione Resolute Support, ad Herat, Afghanistan. Il suo compito era quello di sostenere la ricostruzione del Paese attraverso il sostegno della società civile, ma soprattutto delle donne. Erika ci ha raccontato la sua storia, ma anche la storia di Firoza, Seema, e Masouma, ragazze che hanno partecipato alle attività volte a promuovere il coinvolgimento e l’emancipazione femminile, organizzate dalle Forze Armate italiane. Attività semplici, come lo sport o la sartoria, ma che nel loro piccolo hanno donato ad alcune donne una possibilità in più, degli strumenti per risollevarsi da situazioni di subalternità, spazi di aggregazione, di dialogo e confronto. Momenti per sentirsi meno sole.

È stata Firoza a dare  ad Erika l’idea di organizzare dei corsi di pallavolo per ragazze all’interno della base di Camp Arena. “L’avevo conosciuta nel 2013 durante un incontro mensile presieduto dal governatore di Herat a cui partecipavano i capi dei vari dipartimenti politici ed i rappresentanti di alcune NGO locali. Firoza aveva una piccola associazione con la quale aiutava donne in difficoltà. In quell’occasione iniziammo a parlare scoprendo di avere diversi interessi in comune tra cui uno in particolare: lo sport.” Per una donna afghana praticare sport non è una cosa comune e pure in una provincia culturalmente più aperta come quella di Herat rimane un privilegio di poche. Firoza aveva avuto l’opportunità di diventare insegnante di pallavolo in Pakistan, dove era fuggita con la sua famiglia, e confida ad Erika di aver sempre desiderato insegnare pallavolo alle ragazze afghane, ma la mancanza di un luogo adatto e dei mezzi per poterlo fare, gliel’avevano sempre impedito.

Ma è quando Firoza racconta ad Erika del fenomeno del self-burning che l’idea di combattere la discriminazione anche attraverso lo sport si rafforza. Il self-burning è un atto di autoimmolazione dettato dalla disperazione, dalla solitudine, dall’isolamento, che porta alcune donne a darsi fuoco pur di porre fine alle proprie sofferenze. “Avevo letto qualcosa al riguardo ma sentirne parlare era molto diverso.”, ci confida Erika. Di qui, la decisione di provare a migliorare la condizione della donna organizzando dei corsi di pallavolo, perché, ci spiega il maggiore, “lo sport ha capacità che vanno ben oltre l’attività fisica in sé. E’ motivo di unione e soprattutto di condivisione. Crea forti legami e, perché no, fa sentire anche più sicuri di sé, più forti.”

Erika propone quindi quest’idea a suoi superiori e si mette alla ricerca di un insegnante e di un arbitro. “Ho sparso la voce tra i miei colleghi e dopo pochi giorni si sono presentati un sergente e un capitano dell’aeronautica. Il resto, palloni, magliette e campo da pallavolo non è stato difficile trovarli sempre all’interno della base.”

L’obiettivo era quello di creare degli spazi di aggregazione per donne e ragazze, offrendo loro la possibilità di condividere le proprie storie. Le chiacchiere negli spogliatoi, il fatto di condividere un obiettivo comune, la fatica dell’allenamento o la gioia della vittoria, sono tutti aspetti che possono avere un effetto terapeutico. Non solo, questa iniziativa è stata anche un modo per aiutare a combattere i pregiudizi. La disponibilità di Erika e del contingente italiano insieme al coraggio di queste ragazze, che affrontavano viaggi non facili per raggiungere la base e a volte anche resistenze da parte delle stesse famiglie, hanno rappresentato un tassello importante per il miglioramento della condizione femminile in Afghanistan.

Ma l’impegno del contingente e di Erika non si è limitato alla pallavolo. Durante lo stesso periodo a 25 donne afghane è stata data la possibilità di partecipare a dei corsi di sartoria e di parrucchiera. Queste attività erano svolte nella base di Camp Arena anche grazie al sostegno della CONFARTIGIANATO di Udine. L’obiettivo, ci racconta Erika, era quello di “dare a queste donne uno strumento per portare avanti la famiglia, insegnando loro un mestiere. Aiutarle a prendere coscienza del proprio valore e contribuire a dare loro un minimo d’indipendenza economica che potesse indurre il loro marito, padre o fratello, a rispettarle di più.”

Sono donne coraggiose quelle che hanno frequentato questi corsi, quelle che ogni mattina decidevano di compiere “una lunga marcia ad ostacoli”, come la definisce Erika. Molte di loro provengono da villaggi nei dintorni di Herat, come Masouma che vive ad Injil che circonda il distretto di Herat, o Seema, che viene dal distretto di Zendeh Jan, verso l’Iran. “La presenza di queste donne qui oggi e’ la prova che negli ultimi dieci anni qualcosa è cambiato. Che per queste ragazze di Herat la nostra presenza ha significato qualcosa. Non solo una speranza, ma un piccolo reale cambiamento.”, scriveva Erika nel 2015.

E oggi? Le sfide sono ancora molte. Secondo un rapporto pubblicato dalla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) le donne afgane hanno ancora un ridottissimo accesso alla giustizia, spesso non riescono a essere risarcite e i “reati d’onore”, anche se denunciati, raramente sono puniti. Le donne sono ancora vittime di una cultura che presenta al suo interno tradizioni fortemente patriarcali che implicano la sottomissione della donne, come ad esempio la pratica del badal, un matrimonio basato sullo scambio, in cui due famiglie decidono di dare in sposa una figlia a un uomo dell’altro gruppo e viceversa per azzerare i costi della dote. Una trasformazione culturale richiede tempo, continuità e soprattutto il coinvolgimento diretto degli attori locali in modo da assicurar la sostenibilità dei cambiamenti.

“Sono consapevole del fatto che rispetto alle problematiche che ha l’Afghanistan, l’aver insegnato un mestiere a 25 donne, o aver fatto un corso di informatica a delle donne poliziotto, o aver insegnato pallavolo a 12 bambine, non sia molto. Ma non è questo il punto. Perché al di la del numero in se, quello che ritengo sia importante è il processo che queste attività possono generare e rappresentare. Il fatto che ogni bambina potrà un domani diventare una madre in grado di educare i propri figli secondo principi di lealtà e coraggio, che ogni donna che ha un suo piccolo mestiere possa avere un minimo di potere economico all’interno della famiglia in virtù del quale potrà dire la sua durante un colloquio con suo marito.”

In un contesto come quello afghano, in cui i grandi tentativi di riforma imposti dal governo sono sempre falliti, perché fortemente osteggiati dai gruppi più tradizionali della società, sono proprio le sfide piccole e lente che alla fine che possono produrre un vero cambiamento. Anche imparare a giocare a pallavolo può aiutare ad abbattere le barriere culturali che sono alla radice della violenza contro le donne.