«Ho sempre desiderato fare qualcosa di importante. E ho sempre voluto essere parte di un gruppo di persone disposte a morire una per l’altra. E allora cosa di meglio dei marines?». Ventiquattro anni, un’infanzia tra i cavalli a Bethlehem, in Pennsylvania, lunga treccia castana, la tenente Marina Hierl rientra di diritto nel novero delle donne che il soffitto di cristallo in ambito militare non l’ha solo sfondato. Ma c’è pure salita sopra frantumandolo con la suola degli scarponi. Già, perché Marina Hierl non è solo una marine. È anche il primo comandante di plotone di sesso femminile.

È il 2015 quando l’allora segretario alla Difesa Ash Carter, sulla scia di quanto promesso due anni prima dal suo predecessore Leon Panetta, annuncia al mondo che le donne dell’esercito statunitense potranno accedere a qualunque incarico, compresi ruoli di combattimento in fanteria e artiglieria. Un punto di svolta per l’integrazione militare, fermamente voluta dal presidente Obama. E una sliding door anche per Hierl.

 

«Non ho mai pensato che il mio genere potesse essere un limite sul campo di battaglia», spiegherà lei. Hierl nel frattempo si laurea. Meglio avere un diploma prima di arruolarsi per lo Zio Sam. Poi entra nei marines. Ma per lei non è abbastanza essere una delle 15.885 donne con l’uniforme dei marines, rientrando nell’8 per cento del corpo militare statunitense con la più bassa percentuale di reclute. E non è sufficiente nemmeno essere tra le 740 ammesse sul campo di battaglia. Così Hierl fa domanda di ammissione al corso di addestramento per ufficiali a Quantico. Entrano in 37. Ma dopo 13 settimane solo due riescono a superare l’esame.

 

Ancora però non basta. Marina sceglie di rimanere nell’ombra e di non farsi pubblicità. Niente interviste sui giornali. E intanto si prepara per il prossimo traguardo. «Ho sempre saputo di essere adatta a un ruolo di guida». Ed è così, con la tenacia di chi non accetta mai un no come risposta, che Hierl diventa il primo comandante di un plotone dei marines.

 

«Voglio che i miei uomini mi vedano come un capo, non come una pioniera». Thomas Gibbons-Neff del New York Times, che l’ha seguita sul campo al comando di 35 soldati della Compagnia Echo in missione di addestramento nel nord dell’Australia, racconta come il suo arrivo sia stato visto all’inizio con scetticismo. Stiamo parlando di uno dei corpi militari più famosi del pianeta celebrato da «Platoon», «Full Metal Jacket», «Codice d’onore», e chi più ne ha più ne metta. E stiamo parlando anche di un simbolo travolto dagli scandali sugli stupri, il nonnismo, i suicidi e le foto di nudo delle colleghe pubblicate su Facebook. Ma come ha detto il capitano Kristen M. Griest, prima ufficiale dei rangers dal 2016, non «c’è niente che noi donne non possiamo sopportare a livello fisico e mentale».

 

La tenente Hierl ha schivato i colpi. Ha corso nel deserto del Mojave in California con uno zaino di 20 chili per prepararsi. E in Australia fa lo stesso insieme ai suoi uomini. Con un obiettivo, conquistarsi il rispetto più difficile, quello dei sottoposti. E loro ora ci credono nella loro tenente perché «è una di noi ed è la migliore», assicurano al New York Times.

 

Domani la generale Lori Reynolds, alla guida del Cyberspace Command dei marines, terrà un discorso per celebrare i 100 anni di servizio femminile. La prima fu Opha May Johnson, entrata in servizio come impiegata ad Arlington, in Virginia, il 13 agosto 1918, quando le donne non avevano nemmeno il diritto di voto. E c’è da scommettere che la tenente Hierl ascolterà quel discorso con orgoglio e forse con una punta di commozione.

 

Quello su cui è più difficile scommettere è se le donne riusciranno o meno a rendere l’esercito uno strumento di pace cancellando una volta per tutte il ricordo, tremendo, di quella soldatessa americana — era della polizia militare e si chiamava Lynndie R. England — che teneva al guinzaglio un prigioniero nel carcere iracheno di Abu Ghraib.