Lo Stato Islamico (IS) o Da’ish ha adottato un diverso approccio al mondo femminile rispetto a gruppi come al-Qa’ida, che relega le donne al ruolo di madri di futuri combattenti. IS ha avuto la lungimiranza di attribuire loro dei compiti più rilevanti, tra cui il reclutamento, la propaganda, la gestione di questioni logistiche e di attacchi terroristici. Tale scelta ha permesso di attirare l’attenzione di numerose donne, che vedevano in IS l’occasione di assumere una posizione sociale di maggior rilievo, di vivere «da vera musulmana» o di partecipare attivamente alla lotta contro ai nemici della Comunità islamica (Ummah).

Non si tratta solamente di fascinazione per l’ideale della sposa del combattente o del desiderio di concedersi a un jihadista per aggiudicarsi un posto in Paradiso – il cosiddetto Jihad al-nikah, ossia un Jihad sessuale. Spesso, chi parte non è vittima di un “lavaggio del cervello”, ma è pienamente consapevole di supportare un’organizzazione terroristica, pur avendone una visione influenzata dalla propaganda.

Le donne straniere e poliglotte hanno rappresentato fin da subito un’importante risorsa per IS, specialmente per quanto riguarda la propaganda online. Usare la stessa lingua di altri utenti permette di entrare più facilmente in confidenza con loro e così stimolare il processo di radicalizzazione. Considerando i dialoghi virtuali su forum e social network, è possibile riscontrare un forte attivismo di donne che si occupano di tradurre i materiali propagandistici, per poi diffonderli e commentarli con gli altri.

La propaganda ha anche promosso un’immagine diversa della donna jihadista, attribuendole un ruolo più eroico e impegnato, che probabilmente attinge alle narrazioni delle battaglie in cui presenziò Aisha, giovanissima moglie del Profeta Maometto. Questa visione è stata rinfrancata dall’istituzione, nel 2014, di due battaglioni femminili, Al-Khansaae Umm al-Rayan, anche definiti «polizia della moralità». Diventarvi parte permetteva di portare delle armi e pattugliare in autonomia le strade cittadine, controllando che le donne rispettassero le regole di condotta imposte da IS.

Alcuni, come Thomas Hegghammer, esperto di islamismo violento del Norwegian Defence Research Establishment, hanno visto nell’approccio di IS un principio di emancipazione femminile nel jihadismo.[i] Si potrebbe controbattere che le libertà concesse a questa categoria di donne erano rese nulle dal regime vessatorio che imponevano ad altre donne e a cui loro stesse erano in ogni caso sottoposte. In realtà, da quello che emerge dalle interviste post-liberazione delle città, queste figure emancipate rappresentano delle eccezioni. Per la maggior parte, le donne di IS non avevano accesso a ruoli rilevanti ed erano considerate alla stregua di beni materiali. Ciò dimostra ancora una volta che le mosse di IS sono un gioco di specchi, che distrae dai fatti attraverso illusioni ben costruite.

[i]https://www.theatlantic.com/international/archive/2014/07/the-women-of-isis/375047/